Di Alexander Weis e Selina Gschossmann
Nota editoriale: Il presente contributo è stato inizialmente scritto in lingua tedesca. La versione italiana segue fedelmente il testo originale, con minime modifiche di adattamento.
Questo post è una breve introduzione all’investimento passivo. Vogliamo dare una mano a coloro che desiderano avere una panoramica compatta dell’investimento con gli ETF.
Questo articolo presuppone un livello moderato di conoscenza del mercato azionario. In altre parole, dovreste sapere più o meno cosa sono un’azione, un’obbligazione e un ETF e avere una comprensione di base di concetti come rendimento e rischio. (Se volete rinfrescare le vostre conoscenze, potete farlo dando un’occhiata al nostro glossario, in cui spieghiamo i termini tecnici più importanti nel campo degli investimenti).
In una prima fase, forniamo una panoramica delle principali forme di investimento e, in una seconda fase, esaminiamo il loro rendimento e il loro rischio. Affrontiamo poi la questione cruciale dell’investimento (“Voglio essere un investitore attivo o passivo?”) e mostriamo perché l’investimento passivo è l’alternativa superiore agli approcci attivi. Infine, presentiamo una “ricetta” per un portafoglio passivo composto da due soli ETF: non potrebbe essere più semplice.
Se conoscete già le basi dell’investimento passivo, vi consigliamo il nostro blog post leggermente più avanzato “Investire con i fattori – le basi”.
Iniziamo!
Classi di attivi – una panoramica
Per evitare fraintendimenti, una premessa importante: in questo articolo ci occupiamo esclusivamente di patrimonio liquido. Tipologie patrimoniali come il capitale umano, partecipazioni aziendali o diritti futuri derivanti da assicurazioni pensionistiche non vengono considerate.
I motivi sono due: primo, il dibattito tra gestione attiva e passiva è irrilevante per la maggior parte dei patrimoni illiquidi, in quanto essi possono essere gestiti solo attivamente; secondo, includerli andrebbe ben oltre lo scopo introduttivo di questo breve contributo.
Cosa sono le classi di attivi? Le classi di attivi sono categorie logiche di strumenti patrimoniali che presentano caratteristiche simili in termini di rendimento, rischio e liquidità.
Ecco le principali classi di attivi in sintesi:
- Azioni: partecipazioni in società quotate in Borsa
- Obbligazioni: prestiti negoziabili concessi a Stati o imprese
- Immobili: immobili residenziali e commerciali
- Materie prime: risorse naturali come petrolio, metalli di base o prodotti agricoli
- Metalli preziosi: sottogruppo delle materie prime (ad es. oro, argento o platino)
- Oggetti da collezione: arte, auto di lusso, orologi di pregio, vini pregiati, ecc.
- Criptovalute: Bitcoin, Ethereum, Tether, ecc.
Queste sono le classi di attivi in cui un investitore privato può investire con un impegno ragionevole e a costi accettabili.
Contrariamente a quanto si crede comunemente, un deposito bancario non è una classe di attivi, bensì un prestito non garantito concesso dal depositante a una banca.
Anche prodotti finanziari come assicurazioni a capitalizzazione, fondi immobiliari aperti, private equity, hedge fund, fondi comuni a gestione attiva e persino gli ETF non costituiscono classi di attivi a sé stanti, ma sono semplicemente „contenitori“ che racchiudono vere classi di attivi. Questi contenitori non sono negativi in sé e si differenziano principalmente per lo spessore del loro “rivestimento”: gli hedge fund si trovano a un estremo (spesso e costoso), mentre gli ETF all’altro (sottile ed economico). Tuttavia, in molti prodotti finanziari, il contenitore comporta – oltre a costi e perdita di trasparenza – anche rischi aggiuntivi che la classe di attivi sottostante, presa da sola, non presenta.
Andiamo avanti!
Rendimenti e rischio – quali classi di attivi sono le migliori?
Per trovare una risposta personale alla domanda su quale classe di attivi convenga investire, è necessario prima chiarire quale obiettivo si persegue con l’investimento. Nella maggior parte dei casi, la risposta sarà: “Ottenere il rendimento più elevato possibile con il minor rischio possibile.”
Per questo motivo, nella tabella 1 esaminiamo il rendimento e il rischio delle principali classi di attivi (le criptovalute non sono incluse a causa di una storia di dati troppo breve; i mercati da collezione sono esclusi per mancanza di dati disponibili):
Tabella 1: Rendimenti reali di lungo periodo delle principali classi di attivi (in USD) dal 1900 al 2021 (122 anni)
► Dati: Dimson, Marsh, Staunton (2022); Morningstar; David S. Jacks (oro, materie prime)
► Senza costi né imposte (per gli immobili, i costi di manutenzione sono inclusi) ► Tutti i rendimenti sono espressi in dollari statunitensi (ad eccezione degli immobili residenziali – vedi sotto), al netto dell’inflazione e in forma di Total Return (somma tra proventi correnti e rivalutazioni di capitale) ► Rendimenti degli immobili residenziali: periodo differente (1900–2017) e media ponderata per popolazione dei rendimenti di nove Paesi occidentali, calcolata in valuta locale (motivo: scarsa disponibilità di dati); non include i costi di transazione in fase di acquisto e vendita (che riducono i rendimenti) ► „Anni per il raddoppio“: numero di anni necessari affinché un investimento iniziale si raddoppi al rendimento medio indicato (senza costi né imposte) ► „Rischio“: deviazione standard dei rendimenti annuali (volatilità) nel periodo 1975–2021. Per gli immobili non è indicato alcun valore, poiché non esistono dati affidabili, trasparenti e comparabili con le altre classi di attivi.
Cosa si può dedurre dalla tabella? Per prima cosa, salta all’occhio che i numeri riportati sono probabilmente molto più bassi di quanto la maggior parte di noi si aspetterebbe. Un motivo è che si tratta di rendimenti reali, cioè al netto dell’inflazione. Un altro motivo è che i media, internet e i libri di finanza personale tendono ad alimentare aspettative esagerate sui rendimenti realmente ottenibili.
I valori riportati nella tabella sono semplicemente ciò che i mercati finanziari hanno effettivamente prodotto negli ultimi 120 anni – senza illusioni, senza performance da sogno. È con questa realtà che bisogna fare i conti, volenti o nolenti – ma su questo torneremo più avanti.
In secondo luogo, è evidente che le azioni hanno ottenuto, di gran lunga, i rendimenti più alti rispetto a tutte le altre classi di attivi: il doppio rispetto agli immobili, due volte e mezzo più delle obbligazioni governative a lungo termine e sei volte tanto rispetto all’oro o al conto di risparmio. 👊🏻
In terzo luogo, emerge chiaramente che le obbligazioni statali a breve termine costituiscono la classe di attivi con il rischio più basso – anche qui con un ampio margine rispetto alle altre.
Cosa possiamo imparare da tutto questo? Chi desidera ottenere il massimo rendimento possibile dal proprio capitale non può ignorare le azioni. Tuttavia, poiché molti investitori non riescono (o non vogliono) convivere con la forte volatilità dei mercati azionari, un investimento in azioni dovrebbe sempre essere integrato con una componente meno volatile. Per questa funzione di stabilizzazione, le obbligazioni governative a breve termine di alta qualità o un deposito bancario remunerato (purché rientri nei limiti della garanzia statale dei depositi) rappresentano le scelte più adatte.
Finita l’introduzione – ora si entra nel vivo!
Investire in modo attivo o passivo – il dilemma dell’investitore
Chi desidera investire in titoli come azioni o obbligazioni attraverso la Borsa si troverà, prima o poi, di fronte alla domanda se sia più sensato seguire un approccio attivo o passivo. Ma cosa significano esattamente investimento attivo e passivo? (Per semplificare il più possibile, ci concentreremo solo sulle azioni e tralasceremo il mercato obbligazionario.)
Un investitore passivo, semplificando, acquista il mercato (nel nostro caso, il mercato azionario). In questo modo, ottiene il rendimento del mercato (al netto dei costi di investimento) e si espone completamente anche alla sua volatilità. “Acquistare il mercato” significa comprare uno o più ETF.
Come abbiamo visto in precedenza, nel mercato azionario si può ottenere un rendimento medio annuo di circa il 5% al netto dell’inflazione, ma prima delle tasse e dei costi.
Un investitore attivo, invece, non si accontenta del rendimento del mercato e crede che sia possibile battere sistematicamente il mercato. Ci prova in due modi: selezionando i titoli che, a suo avviso, si comporteranno meglio del mercato (stock picking) oppure cercando di entrare e uscire dal mercato nei momenti “giusti” (market timing), ovvero investendo quando il mercato è ai minimi e vendendo prima del prossimo presunto crollo.
L’investimento attivo è sempre una forma di stock picking, market timing o una combinazione di entrambi.
Si può investire attivamente in autonomia (fai-da-te) oppure affidandosi a un consulente (come una banca o un gestore patrimoniale).
Chi crede nell’investimento attivo ma non vuole occuparsene personalmente, può esternalizzarlo a un gestore di fondi, un consulente finanziario o una banca – pagando però commissioni spesso elevate, sia esplicite sia nascoste (e difficili da individuare).
Per tutti coloro che si sono persi un po’ tra metafore e tecnicismi, abbiamo preparato la Tabella 2, che riassume in modo più asciutto e diretto le principali differenze tra investimento attivo e passivo:
Tabella 2: Le principali differenze tra investimento attivo e passivo
Fonte: “Der leichte Einstieg in die Welt der ETFs” [tedesco] di Gerd Kommer
Perché investire in modo passivo?
La risposta breve è: perché è più redditizio.
Questa affermazione non viene da noi, ma dalla scienza. Negli ultimi circa 60 anni sono stati pubblicati letteralmente migliaia di studi che dimostrano, su base statistica, la superiorità dell’investimento passivo rispetto a quello attivo.
Tuttavia, poiché con l’investimento attivo si possono generare margini molto più elevati dal punto di vista dei fornitori di servizi finanziari, il settore finanziario tradizionale continua a offrire quasi esclusivamente soluzioni di investimento attivo – a prescindere da quanto dimostrino gli studi scientifici.
Anche per i media tradizionali e per Internet, l’investimento attivo è più redditizio in termini editoriali: le storie legate a operazioni speculative o strategie “vincenti” generano più attenzione, più clic e quindi più ricavi pubblicitari – soprattutto da parte degli stessi fornitori di prodotti a gestione attiva.
(Dei ricavi pubblicitari legati ai fondi attivi preferiamo nemmeno iniziare a parlare…)
Le prove scientifiche a favore della superiorità dell’investimento passivo sono, in ogni caso, letteralmente schiaccianti.
Ma per non affidarci solo a impressioni soggettive, ci basiamo nel nostro ragionamento su un argomento teorico e uno empirico, entrambi tratti dalla letteratura accademica – lasciando che a parlare siano i numeri.
Teoria: l’aritmetica dell’investimento attivo
L’aritmetica dell’investimento attivo afferma che, nel loro insieme, tutti gli investitori ottengono – per definizione – il rendimento del mercato, poiché nel complesso rappresentano il mercato stesso. Questo implica che il 50% del capitale investito deve necessariamente ottenere un rendimento inferiore alla media del mercato, mentre l’altro 50% otterrà un rendimento superiore. È fondamentale sottolineare che si tratta di una necessità matematica, non di un’opinione o di un’ipotesi discutibile.
Non sono necessarie ulteriori assunzioni su costi, tasse, comportamenti o composizione degli operatori di mercato.
Torniamo al punto centrale: questo significa che – al netto dei costi – il 50% degli investitori attivi batte il mercato e il restante 50% sottoperforma. Ma se ammettiamo che l’investimento attivo comporta costi mediamente più elevati rispetto a quello passivo – vedi alla voce “costi ricorrenti” nella tabella 2 – allora la quota degli investitori attivi che riescono a sovraperformare scende necessariamente sotto il 50%. La probabilità statistica di battere il mercato diventa quindi inferiore a quella di vincere a testa o croce.
Per capire quanto sia effettivamente bassa questa probabilità nella realtà pratica, passiamo ora all’argomento empirico.
Empiria: i fondi “outperformer” sono affidabili quanto lo zero alla roulette
La parte empirica del nostro argomento si basa su uno studio condotto da S&P Dow Jones Indices, uno dei principali provider di indici al mondo, intitolato – con un nome non proprio immediato – „Standard & Poor’s Index Versus Active“, in breve: SPIVA. Questo studio confronta i rendimenti dei fondi attivamente gestiti con quelli di benchmark passivi equi, permettendo così di trarre conclusioni sul successo della gestione attiva in diversi periodi temporali e in differenti aree geografiche.(Esistono molte altre ricerche simili che arrivano a risultati pressoché identici, ma abbiamo scelto lo studio SPIVA perché è tra i più rigorosi del suo genere, viene aggiornato due volte l’anno da oltre 20 anni ed è liberamente accessibile.)
Dallo studio SPIVA emergono principalmente due conclusioni:
- I fondi “outperformer” sono una minoranza: La quota di fondi attivi che hanno battuto il proprio benchmark passivo, nel triennio 2019–2021, è stata in media solo del 40% considerando tutte le regioni (Paesi sviluppati e in via di sviluppo). Ma se si estende l’orizzonte a 20 anni (2002–2021), tale quota scende a circa 10%. Più lungo è il periodo di osservazione, maggiore è la percentuale di fondi che sottoperformano. Sorge quindi spontanea la domanda: perché non investire semplicemente in quei pochi fondi che hanno sovraperformato? Ed è qui che entra in gioco la seconda conclusione.
- Chi batte il mercato una volta, raramente lo fa di nuovo: La composizione dei fondi “vincenti” cambia di anno in anno quasi in modo casuale.
Dei migliori 25% di fondi azionari nel 2017, solo il 62% è rimasto tra i migliori nel 2018; nel 2019 erano il 37%, nel 2020 appena il 28%, e nel 2021 solo un 1,7% – praticamente invisibili. Per i fondi obbligazionari, il dato è crollato già nel 2020 allo 0%. La popolare strategia di “investire nei fondi che hanno performato meglio in passato” è quindi destinata al fallimento.
Lasciamo semplicemente queste potenti evidenze parlare da sole e concludiamo così il nostro argomento contro l’investimento attivo e a favore di quello passivo.
Se non siete ancora del tutto convinti dei vantaggi dell’approccio passivo e/o volete approfondire ulteriormente i limiti della gestione attiva, vi consigliamo caldamente il nostro articolo: “Dieci motivi per cui l’investimento attivo non funziona”.
Se invece vi abbiamo già convinti, ne siamo felici – e come piccolo ringraziamento finale abbiamo preparato per voi una chicca speciale:
una ricetta semplice e gustosa per costruire un portafoglio passivo ben diversificato, a base di soli due ETF.
Come si investe in modo passivo?
Investire in modo passivo, almeno in linea di principio, è diventato semplice da quando sono stati introdotti gli index fund all’inizio degli anni ’70 e successivamente gli ETF (una variante negoziabile in Borsa degli index fund) nei primi anni ’90. In sostanza, bastano due semplici passaggi:
Primo, stabilire la composizione percentuale del proprio portafoglio tra una parte rischiosa e una parte a basso rischio (per esempio 60/40). Secondo, riempire queste due componenti con ETF concreti.
Questa allocazione statica viene attuata secondo il principio del Buy-and-Hold (“comprare e mantenere”). Il Buy-and-Hold è parte integrante dell’approccio passivo, così come la diversificazione globale su larga scala tramite ETF o fondi indicizzati.
Questo è il concetto di portafoglio mondiale basato sulla ricerca scientifica, sviluppato dal Dr. Gerd Kommer. Nel caso più semplice, è sufficiente un ETF per la parte rischiosa e uno per la parte prudente del portafoglio. Nella grafica seguente ne presentiamo una rappresentazione schematica.
Grafico: Rappresentazione schematica del portafoglio mondiale
Fonte: “Der leichte Einstieg in die Welt der ETFs” [tedesco] di Gerd Kommer. ► (*) Conti di deposito solo nella misura in cui rientrano nei limiti della garanzia statale sui depositi di un Paese con un rating di credito almeno pari a AA.
La componente rischiosa del portafoglio (“RBT”) funge da motore di rendimento, mentre la componente prudente o “priva di rischio” (“RFT”) agisce da ancora di sicurezza. Chiamiamo questa suddivisione allocazione di primo livello (Level-1 Asset Allocation).
In linea teorica, sono possibili tutte le combinazioni dal 100% RBT / 0% RFT (“portafoglio 100/0”) al 0% RBT / 100% RFT (“portafoglio 0/100”), ma nella pratica la maggior parte degli investitori sceglie una via di mezzo, poiché le allocazioni estreme sono raramente preferite.
La posizione di un dato nucleo familiare su questo spettro RBT-RFT dipende principalmente da quattro variabili: aspettativa di rendimento, capacità di tollerare il rischio, bisogno di liquidità e orizzonte temporale dell’investimento.
Più queste variabili (a eccezione del fabbisogno di liquidità) sono elevate, più il portafoglio potrà essere orientato verso una maggiore esposizione al rischio (asset allocation aggressiva).
Al contrario, se le variabili risultano debolmente espresse, è preferibile iniziare con una allocazione più prudente o conservativa.
Se queste variabili si collocano su livelli differenti tra loro, è consigliabile, almeno inizialmente, orientarsi sulla più conservativa tra esse e, solo in seguito, una volta maturata esperienza diretta con il proprio portafoglio, procedere a eventuali adattamenti graduali.
Una volta definita l’allocazione di primo livello, si passa alla scelta concreta degli ETF, fase che chiamiamo allocazione di secondo livello (Level-2 Asset Allocation). Nella forma più semplice, questo può avvenire utilizzando un solo ETF per la parte rischiosa e uno per la parte prudente. L’ETF RBT dovrebbe replicare in modo quanto più completo possibile il mercato azionario globale. L’ETF RFT, invece, dovrebbe contenere esclusivamente obbligazioni i) a breve scadenza residua, ii) ad alta qualità creditizia e iii) denominate nella valuta nazionale dell’investitore, al fine di adempiere alla sua funzione di stabilizzatore del portafoglio.
Un portafoglio di questo tipo, nella sua forma più semplice, potrebbe essere strutturato come segue:
- Componente rischiosa del portafoglio (“RBT”): Vanguard FTSE All-World UCITS ETF (ISIN: IE00BK5BQT80) [dati aggiornati a settembre 2022]
oppure L&G Gerd Kommer Multifactor Equity UCITS ETF (WKN: WELT0A) - Componente prudente del portafoglio (“RFT”): Lyxor EuroMTS Highest Rated Macro-Weighted Govt Bond 1-3Y (DR) UCITS ETF (ISIN: LU1829219556) [dati aggiornati a settembre 2022]
In alternativa, la componente prudente del portafoglio può essere rappresentata anche da un conto di deposito o conto vincolato, purché l’importo investito rientri nei limiti della garanzia statale sui depositi (100.000 euro per ogni cliente e banca).
Si segnala espressamente che questo esempio non costituisce una raccomandazione d’investimento, ma ha esclusivamente finalità illustrative, per mostrare quanto sia semplice implementare un approccio passivo. Il portafoglio mondiale può essere ulteriormente personalizzato e ampliato – ad esempio con l’inclusione delle cosiddette premialità dei fattori (factor premia). Tuttavia, spiegare la teoria e la pratica del cosiddetto factor investing andrebbe ben oltre l’ambito di questo articolo.
Una volta definito il portafoglio e acquistati gli ETF, è consigliabile verificare periodicamente che l’allocazione di primo livello non si discosti eccessivamente nel tempo dall’allocazione target desiderata. Questo perché le oscillazioni di mercato – a cui il portafoglio è esposto quotidianamente, soprattutto nella componente RBT – modificano progressivamente i pesi relativi delle due componenti. Il processo con cui si riportano manualmente i pesi del portafoglio alla loro configurazione iniziale si chiama rebalancing.
Conclusione
In questo articolo abbiamo esaminato quali siano le principali classi di attivi e quali di esse non dovrebbero mancare in un portafoglio ben costruito. Per la stragrande maggioranza degli investitori privati, una combinazione di azioni (come motore di rendimento) e obbligazioni (come ancora di stabilità) si dimostra particolarmente adatta. Successivamente, ci siamo concentrati sul dibattito tra gestione attiva e passiva, analizzando le differenze tra i due approcci. Abbiamo mostrato, attraverso argomentazioni teoriche e prove empiriche, perché l’investimento passivo rappresenta l’alternativa superiore rispetto all’investimento attivo. Infine, abbiamo illustrato come implementare in concreto un portafoglio passivo – spesso indicato con il termine portafoglio mondiale, secondo il concetto sviluppato dal Dr. Gerd Kommer – sottolineando anche l’importanza della regolare ribilanciatura (rebalancing) nel tempo.
Investire in un portafoglio mondiale significa mettere il proprio capitale al servizio dell’economia globale. Grazie a questo capitale, oltre 10.000 aziende quotate in tutto il mondo possono produrre beni e servizi di cui quasi otto miliardi di persone hanno bisogno ogni giorno per soddisfare i propri bisogni primari e migliorare il proprio tenore di vita rispetto alle generazioni precedenti. Come contropartita per aver messo a disposizione capitale di rischio sotto forma di azioni e obbligazioni, l’investitore riceve – nel lungo periodo – un rendimento equo e proporzionato al rischio assunto.
Bibliografia
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